Una querelle teologica della prima metà dell'Ottocento sui bambini morti senza battesimo Monaldo Leopardi il precursoredi Loretta Marcon Fin dalla fine dell'Ottocento Monaldo Leopardi fu considerato, a torto, soltanto come il padre del grande poeta, più volte messo sotto accusa e ritenuto una specie di carceriere non solo di Giacomo ma anche degli altri figli. Ovviamente c'è ben altro. Nobile erudito della Marca Pontificia - vantava tra i suoi estimatori anche Gioacchino Pecci, il futuro Leone xIII - fu allevato, come egli stesso dichiara nella sua Autobiografia, secondo i "principj di Religione e di onore (e) ai modi nobili e generosi". Rappresentante del conservatorismo cattolico del tempo, impegnato nell'amministrazione pubblica e amato dal popolo per la saggezza e il coraggio che dimostrava nei frangenti più difficili attraversati dalla sua gente, fu autore di circa cinquantacinque opere edite e inedite, alcune delle quali di argomento teologico come per esempio Considerazioni sullo stato dei bambini morti senza battesimo, un singolare libro stampato a Lugano nel 1839. La sua mente "quadra" (come egli stesso la chiama) era informata a inflessibili principi e obbediva totalmente ai dettami della logica nella convinzione che seguendo la sua ragione non avrebbe errato. Fu questa sua forma mentis che gli creò problemi di censura non solo per quanto riguarda il giornale da lui fondato, "La Voce della Ragione" (che venne alla fine soppresso), ma anche per questo lungimirante libro sulla spinosa questione del Limbo. Nel 1837, da bravo suddito, Monaldo aveva inviato il suo manoscritto alle autorità civili per il controllo della censura e queste, trattandosi di argomento teologico, lo sottoposero all'arcivescovo cardinale Carlo Oppizzoni. Il teologo Giuseppe Pasti, che fu incaricato di esaminarla, da una parte si complimenta con l'autore di questo testo "ingegnoso, pieno di sacra erudizione" che "niente ha, che contrario sia ai dogmi cattolici", dall'altra però sottopone la pubblicazione alla condizione che Monaldo "vi faccia quelle correzioni, di cui molte volte mi sembra bisognoso l'opuscolo nei luoghi da me indicati nel foglio di osservazioni". Sta di fatto però che Monaldo non tenne conto interamente di quelle Osservazioni e pubblicò l'opera, due anni dopo, fuori dai patrii confini. Il Pasti riprese allora la penna per inviare all'arcivescovo una nuova lettera, questa volta di tutt'altro tenore, che si conclude portando argomenti che sembrano manifestare una preoccupazione pastorale più che basarsi su tesi teologiche: "Ho trovato che le modificazioni si riducono a tre o quattro solamente e l'operetta (...) nonostante tutte le belle parole dell'autore, è di qualche pericolo pel volgo in quanto si renderanno meno diligenti i padri, e le madri nel procurare il Battesimo ai loro figli". Sembra che Monaldo sia entrato in quella che chiama "discussione ardua e spinosa", appoggiandosi via via alle Scritture, ai Padri e ai documenti conciliari, probabilmente perché coinvolto a livello personale. Ciò si può arguire leggendo una pagina del suo Diario: "La predetta Adelaide (la moglie) ha abortito altre due figlie femmine, una li 22 gennaio 1806, l'altra li 21 ottobre 1808, ma a Dio non piacque che avessero il S. Battesimo essendo morte qualche giorno prima dell'aborto". Trent'anni dopo il nobiluomo, che aveva sempre portato nel cuore la sua angoscia, prende la penna per "considerare se si opponga al dogma cattolico il pensare che Iddio, nella sua infinita sapienza e nella sua infinita misericordia, possa aver riservato un modo di salute ai Bambini morti senza Battesimo". Forse l'approfondimento della questione l'avrebbe pacificato sulla sorte dei suoi figli che voleva sperare salvi grazie al principio fondamentale della volontà salvifica universale divina. Nell'opera egli rifiutava, scrive, ciò che, "ripugna" alla ragione: la teoria agostiniana della dannazione (pur con una pena "mitissima") e le altre teorie che avevano cercato di mitigarla proponendo altre forme di privazione, e scrive pagine decisamente in anticipo sui tempi che scateneranno astio e sarcasmo in Gaetano Gibelli, autore di una recensione apparsa sul "Giornale ecclesiastico" di Bologna nel 1840. Il tentativo di conciliare la ragione con la fede, la teoria di Monaldo dell'"anello di congiunzione fra i dettami naturali della ragione e le verità definite dalla Chiesa", sarà ciò che più verrà aspramente contestato e susciterà la riprovazione nei riguardi dell'ardire inaudito di colui che voleva "vedere il come e il perché d'ogni cosa". Il sarcasmo malevolo che percorre ogni pagina di questa recensione si manifesta apertamente contro colui che aveva osato cercare di comprendere con la sua ragione qualcosa che dogma non era ma soltanto dottrina comune. Ma Monaldo, cattolico osservante che odiava sentirsi trattare come una "pecora" e che rifiutava di prestar fede "alle Madonne che piangono", si basava sul principio che "Iddio vuole la salute di tutti gli uomini, che il figliuolo di Dio è venuto in terra per la redenzione di tutti", perché "non si vede per qual ragione non si possa credere e non si debba credere che Iddio provederà (a salvare i bambini morti senza battesimo) con un modo straordinario e miracoloso". Ricordando che "tutte le decisioni della Chiesa intorno al dogma sono dogmi di fede, ma non tutte le parole della Chiesa sono decisioni dogmatiche", nella discussione di quella che è stata per lungo tempo una "dottrina comune" e che, come recita il recente documento sul Limbo approvato da Benedetto XVI il 19 gennaio 2007 "non trova alcun fondamento esplicito nella rivelazione, nonostante sia entrata da lungo tempo nell'insegnamento teologico tradizionale", ma su cui "la Parola di Dio dice poco o niente"; Monaldo Leopardi appare dunque come un precursore. Quali le sue conclusioni? "Ci proponevamo di esaminare se sia contrario al dogma cattolico il pensare che Iddio nella sua infinita sapienza e nella sua infinita misericordia, possa avere riservato un modo di salute ai Bambini morti senza Battesimo; ora abbiamo considerato che il Signore, avendo creato tutti gli uomini per la felicità e per la vita, avendoli tutti redenti col sangue del suo divino figliuolo, e volendo che tutti quanti si salvino, non può essere che per volere e disposizione di Dio, ad alcuni uomini manchi, senza loro colpa, ogni modo di giustificarsi e salvarsi. Da un'altra parte abbiamo considerato che per volere e disposizione divina nessun uomo può salvarsi senza il Battesimo (...) Quindi abbiamo concluso che negli arcani della divina sapienza ci deve essere un modo e un punto, in cui si congiungono e si concordano la giustizia e la misericordia divina; i dogmi della fede e i lumi naturali della ragione umana, i quali suscitati e guidati dalla luce di Dio, reclamano un modo di salute per i Bambini morti senza Battesimo". E ancora: "Sottomettiamoci docilmente e sinceramente alle definizioni infallibili della Chiesa; e intanto rendiamo onore alla luce della divinità segnata nella mente dell'uomo, confidando che per i Bambini morti senza Battesimo, sia riservato un modo di salute, nei tesori della infinita sapienza, e della infinita misericordia di Dio". Con quest'opera, che mostra uno sforzo di ricerca non comune se si pensa all'epoca e al luogo in cui fu scritta, il conte Monaldo si mostra con un volto finalmente diverso da quello cui la critica leopardiana ci ha abituato. Egli non è quell'ingessato, retrogrado reazionario di cui si è detto - e si continua purtroppo a dire - ma un letterato erudito che va considerato indipendentemente dall'essere stato il padre di un genio quale fu Giacomo. |