Il rapporto tra la Bibbia e Leopardi in un'intervista a Loretta Marcon 


Dall' alto dell' ermo colle

con gli occhi di Qoèlet


Loretta Marcon è una mite signora padovana che non si fa fermare da nessun ostacolo culturale. Gli ostacoli culturali in Italia sono i farraginosi e clientelistici sistemi universitari e le "grandi" macchine editoriali e massmediatiche con annessi premi letterari, che, salvo rare eccezioni, sono barzellette che non fanno ridere. Lei, Loretta Marcon, senza paracadute editoriali e amicizie universitarie è diventata, con silenzioso lavoro e passione gratuita, una leopardista di tutto rilievo, condividendo oneri e onori con l'ottimo e ben noto editore Guida di Napoli. Da qui sono usciti due volumi Giobbe e Leopardi (2005) e più di recente un Qoèlet e Leopardi (2007) che, insieme ad un precedente saggio di chi scrive - Dio in Leopardi edito da Città Nuova nel 1985 - riempiono nella critica un posto lasciato spesso volutamente vuoto, o minimizzato, o distorto nonostante la dimensione religiosa di ogni parola leopardiana. E nonostante anche il fatto che Leopardi stesso abbia avvertito contemporanei e posteri dalle facili ideologie, che, invece di biasimarlo per il suo pessimismo - essi che conciliavano e conciliano bella vita e misticismo o simili - dovrebbero rispettare chi come lui "Giobbe e Salomon difende", come Leopardi afferma ne I nuovi credenti:  Giobbe e Salomone, ovvero il sapiente doloroso e l'allora creduto autore dello straordinario Libro di Qoèlet.
Loretta Marcon - ci fossero oggi, in Italia, molti studiosi come lei, fuori dalle ideologie e dai poteri - ci guida dapprima alla somiglianza-differenza del genio recanatese con Giobbe:  all'impossibilità per Leopardi di superare il vertiginoso scalino illuministico che scende all'autosufficienze della ragione divenuta, per contrazione e irrigidimento, mera raison; con quella soltanto un animo puro e nobile come quello del poeta del Canto notturno non poteva non approdare all'infinita spiaggia del dolore irredento e del, per citare un grande leopardiano contemporaneo come Carlo Emilio Gadda, "fulgurato acoscendere di una vita". E ci guida poi nell'ancor più intrigante somiglianza-differenza di Leopardi con il desolato Qoèlet. Chi grida a diciannove anni "Oh, infinita vanità del vero!" - così nello Zibaldone, anticipando di sessant'anni Nietzsche - ha un'immensa, inappagabile, evangelica nostalgia della verità non astratta e perciò morta, ma incarnata e perciò viva e "superviva" del Cristo, mai veramente conosciuto e anzi disconosciuto in casa Leopardi; così come il sapiente dell'Assemblea (Qahal) ha un infinito e inappagabile desiderio di senso e di valore, vissuto, biblicamente "gustato" in un afflitto nichilismo esistenziale che non esclude anzi postula la fede assoluta nel Dio di Israele. I due nichilisti appassionati, così diversi e affini, hanno sete inesausta di vita; Leopardi "odia la vita e te la fa amare", come perfettamente dice Francesco De Sanctis, Qoèlet predica il suo "hebel habalim (vanitas vanitatum)" riecheggiato nell'"infinita vanità del tutto" leopardiana:  assimilazione e dissimilazione ad un tempo di motivi complementari profondissimi e perenni, da cui il lettore, per la mano di Loretta Marcon con la sua padronanza sicura e totale del testo e della critica, resta affascinato.

Perché ha incominciato a interessarsi di Leopardi e in particolare della sua dimensione religiosa, che in verità pervade tutta l'opera, ma che la gran parte della critica minimizza, nega o distorce?

La figura di Leopardi mi ha sempre affascinato e non solo per la sua sublime poesia. Il suo pensiero, che esamina e sfaccetta tutti gli aspetti della vita umana, è un qualcosa che mi ha attratto in un modo molto forte spingendomi verso una strada che si è rivelata, mano a mano, assai intricata e complessa. Forse una delle pagine leopardiane "colpevoli" di questa passione è stata, dopo l'Infinito e il Canto notturno di un pastore errante, quella famosa dello Zibaldone che descrive un giardino in "istato di souffrance". Mano a mano che procedevo nello studio e nella ricerca pensavo, con sempre maggior convinzione, che la tesi dominante della critica che, fin dal 1947, propugna l'ateismo e il materialismo assoluti di Leopardi, forse non era proprio corretta. Considerando tutta l'opera e la stessa vicenda esistenziale di Leopardi, mi sembrava di poter rilevare una religiosità profondissima, tanto che molte pagine bibliche mi tornavano alla mente.

Perché ha focalizzato la sua ricerca, ottimamente centrata e illuminante, sui rapporti tra Leopardi e Giobbe, Leopardi e Qoèlet?

Durante i primi anni dei miei studi leopardiani, incontravo spesso nei vari testi di critica che andavo leggendo, definizioni che riprendevano quella che lo stesso Carducci diede parlando di Leopardi:  Il "Giobbe del pensiero italiano". Erano però definizioni che si fermavano lì, ad un livello superficiale, e non approfondivano davvero, in parallelo con il poema biblico, il rapporto tra l'uomo di Uz e l'uomo di Recanati. Allo stesso modo, anche Qoèlet è stato riconosciuto, forse ancor più che Giobbe, l'altro specchio di Leopardi sia dalla critica leopardiana sia dagli esegeti - ricordo, ad esempio, che il Ravasi pone il Recanatese tra i suoi "mille Qoèlet". Infine, lo stesso Leopardi si considerava il "difensore" di Giobbe e di colui che, all'epoca, era creduto l'autore di Qoèlet, Salomone.

Quali risultati, guardandosi indietro, pensa di aver raggiunto?

Rivedendo i miei primi scritti - La crisi della ragione moderna in Giacomo Leopardi; Vita ed Esistenza nello Zibaldone - riconosco quello che è stato un poco il filo conduttore in tutte le mie ricerche, appunto quello che mi è sempre apparso evidente nella trama che compone il pensiero di Leopardi:  quello della sua religiosità. Non ho mai avuto la presunzione di pensare che il mio "volto" di Leopardi rispecchiasse ciò che egli fosse stato davvero; ho solo cercato, con umiltà, di ritrovare tutti quei frammenti e/o documenti trascurati dalla critica imperante poiché non combaciavano con l'immagine ormai consolidata di un Leopardi ateo.

Gli articoli sugli stessi argomenti con cui in questi anni ha corredato i saggi precedenti, quale funzione hanno avuto?

Amando Leopardi anzi, vivendo ogni giorno con lui attraverso le sue pagine, mi ha sempre interessato discutere, su quanto andavo valutando e riscoprendo, con tante persone che, come me, sentivano la medesima passione. Penso che quando si crede in qualcosa si desideri anche far parte altri di questa fede. Gli articoli sugli argomenti dei saggi, quindi, vorrebbero, per così dire, allargare l'interesse, divulgare - anche presso chi forse non legge abitualmente saggi - la figura e il pensiero di Leopardi, mostrando anche aspetti poco considerati dalla critica ufficiale.

Progetti per il futuro?

Tanti sono i progetti che vorrei portare avanti in campo leopardiano e soprattutto in direzione di quella religiosità e spiritualità in cui ho sempre creduto. Vorrei, ad esempio, riprendere il discorso sugli ultimi giorni di Leopardi, sulla sua morte cristiana - un documento che nessuno cita e nessuno va a consultare è appunto quello che riguarda i Sacramenti ricevuti dal poeta prima di spirare - e poi sui rapporti con l'ebraismo cui era interessato non solo Giacomo ma anche il padre Monaldo.

(Giovanni Casoli, «L’Osservatore Romano», 20.12.2007)


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Un blog per mostrare un Leopardi diverso

da quello che insegnano a scuola

 


 Professoressa Marcon, quando è nato il suo amore per Giacomo Leopardi?

 Questa è una domanda che sempre mi viene posta e che, lo confesso, mi mette leggermente in apprensione. Infatti una passione è impossibile da spiegare in modo razionale né, forse, datare con precisione. Potrei pensare ad una data ricordando l’inizio di questo percorso che dura ormai da sedici anni. Ma qui, come direbbe Giacomo, “si spengono tutti i lumi”. Il Leopardi “scolastico”, poeta del Passero solitario e dell’ Infinito e  teorizzatore della “natura matrigna” era sopito nella mia memoria, come in quella di tante persone, da molti anni. Ma “quel” Leopardi non è “questo” Giacomo che ho sentito e sento. Si può parlare di  “colpo di fulmine”, di ”fulgurazione”? Io credo di sì, perché anche un’opera letteraria può generare in noi una sorta di richiamo irresistibile.

I suoi sono studi che vanno oltre la poetica del genio recanatese ed esplorano alcuni aspetti della sua opera attraverso chiavi di lettura inedite

La mia ricerca è iniziata indirizzandosi verso aspetti dell’Opera poco sondati dalla critica, quali ad esempio gli studi giovanili e i rapporti del giovane Giacomo con la filosofia e con i filosofi moderni. Successivamente ho esplorato  il rapporto con Kant. Nell’ambito della critica leopardiana il rapporto Leopardi-Kant ha sempre rivestito un grande interesse perché sembra essere stato  davvero un incontro mancato. Così sono nati i diversi articoli sull’argomento (che saranno riuniti, insieme a un inedito, in un volume che uscirà a febbraio per Guida editore). Gli ultimi studi, cui tengo molto, sono invece dedicati alla riscoperta delle fonti bibliche che in Leopardi sono innegabili ma misconosciute, salvo poche eccezioni, dalla critica ufficiale. Ritengo ci sia ancora molto da sondare su questo argomento.

Quanto c’è di moderno nel pensiero leopardiano?

 Mano a mano che proseguivo nel mio percorso leopardiano, soprattutto immergendomi nelle pagine dello Zibaldone e dell’ Epistolario, mi sono accorta di come il pensiero di Giacomo fosse di un’attualità sconvolgente, tanto da far sembrare quelle pagine scritte oggi. Le riflessioni leopardiane  provenendo da uno studio e da un’osservazione sull’uomo profondissimi sono davvero universali e valgono quindi per l’uomo di ogni tempo. Penso ora, ad esempio, a pensieri come quello che parla della vita come di una prova di commedia in cui tutti recitano, una di quelle rappresentazioni, che talvolta i collegiali, o simili fanno per loro soli. Perché non ci sono più spettatori, tutti recitano, e la virtù e le buone qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri.  A quelli sull’ uomo e i suoi vizi (l’egoismo soprattutto) e ad altri interessanti pensieri “politici”. 

  Lei ha scritto cinque libri dedicati al sommo poeta, ma l’ultimo ci incuriosisce particolarmente. Ce ne vuole parlare?

 Qualche anno fa ho iniziato un’avventura sul web creando, in incognito, un blog dedicato a Leopardi in cui proporre testi poco noti anche prendendo spunto dal mio quotidiano. Il tutto mantenendo il rigore e la serietà di una ricerca ma usando un linguaggio accessibile. Mi sono accorta che tanti amici virtuali leggevano e commentavano con estremo interesse i post e si avvicinavano al poeta in modo differente e senza pregiudizi. E poiché non c’è maggior soddisfazione che riuscire a portare agli altri ciò che si ama e ciò in cui si crede, ho pensato di trasporre su carta stampata il contenuto del blog per mostrare un Leopardi diverso da quello che insegnano a scuola, per mostrare un amico. Insomma per far “sentire” anche ad altri (e c’è una differenza tra “conoscere” e “sentire”) quello che è stato ed è per me. Non un “pessimista” ma invece un uomo convinto che per vivere ci vuole una “goccia d’illusione” e una “scintilla di speranza”. Per rivelarlo come colui che sperava nell’amore universale tra gli uomini e che sempre ebbe bisogno “d’amore, di fuoco”. Proprio come noi.

In un precedente incontro mi ha confessato che Lei vive in una dimensione in cui sente accanto a sé la presenza di “Giacomo”…

 Questa domanda tocca i sentimenti, le emozioni e le corde del cuore. In effetti  è come avvertissi una presenza accanto a me. Nessuna sindrome di Stendhal per carità… ma mi pare evidente che scrivendo da tanti anni solo su un autore si stabilisca un particolare rapporto, ma sempre con l’attenzione a quel pudore e a quel timore che si prova di fronte a un Grande. Non posso negare l’emozione profondissima che mi ha colto durante la mia prima volta a Recanati, né quella provata in certi luoghi napoletani dove il Poeta ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, così come non posso dimenticare certe coincidenze che mi hanno fatto operare particolari scelte di studio. Leopardi è autore esigente e assorbe la mente e il cuore di chi gli si avvicina ma gli si deve riconoscenza per quanto offre in cambio.

 

(Asmae Dachan, Mondo Lavoro, n. 8, dicembre ’10-gennaio ’11)


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La rivelazione di Loretta Marcon in un libro indagine

 

Nuova ipotesi sulle spoglie dello scrittore

“Lo seppellirono nel cimitero delle 366 fosse”

  

 Giacomo Leopardi potrebbe essere sepolto nel cimitero delle 366 fosse, vittima della spiccata passione del suo caro amico Antonio Ranieri per l’anatomia umana.

Lo svela a Metropolis Loretta Marcon che sull’argomento ha scritto anche il saggio “Un giallo a Napoli - la seconda morte di Giacomo Leopardi” (Guida 2012). Una ipotesi frutto di un’attenta ed approfondita ricerca durata anni.

 “Napoli. Sono le 19.00 del 14 giugno 1837. In una camera da letto di un piccolo appartamento in Vico Pero n. 2, un uomo di 38 anni, pronunciando le parole “Non vedo più nulla, aprite le finestre” muore. Quell’uomo si chiamava Giacomo Leopardi”.

 

 Il mistero dei sacramenti, le cause della morte, la falsa sepoltura, l’esumazione e la scoperta, l’urna di cristallo sparita, le spoglie in qualche modo trafugate, le bugie, le false dichiarazioni. Ci racconta brevemente cosa è riuscita a scoprire dalle carte, dai documenti, frugando negli archivi?

  Avvicinarsi a queste vicende, che mostrano come la realtà possa superare la fantasia, è stato come entrare in una foresta intricata e piena di ostacoli. Il mistero avvolge fatti, avvenimenti e documenti a tal punto da scoraggiare ogni tentativo di sbrogliare la matassa. Mano a mano che proseguivo nelle ricerche nuovi sentieri si aprivano svelando nuove scoperte e consentendomi di formulare nuove ipotesi.

La verità e' ancora avvolta nel dubbio ma dopo aver raccolto per anni qualsiasi pagina, scritto e indizio anche minimo intorno a questi argomenti una nuova verità si aggiunge alle tante formulate fino ad oggi. Un dato nuovo su tutti ha colpito la mia attenzione: la passione di Antonio Ranieri per la “notomia”, un aspetto della sua personalità pressocché sconosciuto, non solo a chi conosce Leopardi solo dai Manuali scolastici, ma anche a molti leopardisti. Un’attività che egli svolgeva, pur senza essere iscritto alla Facoltà di Medicina, presso l’Ospedale degli Incurabili che appare spesso in tutto il mio percorso di ricerca e che io considero luogo chiave nelle vicende di cui stiamo parlando.

Anche se gli archivi sono scomparsi unendo tutte le tessere di questo puzzle si e' rivelata una prospettiva completamente diversa da quanto finora è stato scritto sull’argomento.

Riguardo a quella che viene chiamata, a mio parere impropriamente, conversione per me non esiste alcun mistero. E’ stato facile appurare, consultando le disposizioni canonistiche dell’epoca, l’obbligo dei parroci di mantenere un Libro dei morti in cui segnare scrupolosamente tutti i dati concernenti il decesso. Interessante è stato sfogliare proprio quel X Libro dei Morti della Parrocchia di Fonseca per accorgersi che quelle registrazioni non sono affatto uguali per tutti i defunti, anche se si era in tempo di colera e morivano migliaia di persone ogni giorno. E’ troppo lungo raccontare una ricerca come questa, complessa, lunga e difficile in cui si intrecciano anche fatti storici.

 Secondo questa ricostruzione quindi chi o cosa sarebbe sepolto nel mausoleo del Parco di Virgilio a Napoli?

Quella stele, davanti la quale ho pur provato una emozione fortissima, io la considero ormai come un monumento alla grandezza di Leopardi.

Il contenuto di quella cassa che Antonio Ranieri fece credere contenere i resti del nostro grande Poeta e che invece contenevano poche ossa di uno sconosciuto, venne inumato nel 1939 quando avvenne con gran pompa la traslazione.

Anche allora senza appurare la verità. Eppure le voci scettiche, tra le quali quella del De Sanctis, si rincorrevano fin da poco tempo dopo la morte di Leopardi. Si aveva fretta di rinchiudere un caso imbarazzante sia per l’autorità civile che per quella ecclesiastica.

 

 Nelle conclusioni del suo libro Lei arriva a formulare una nuova ipotesi in parte contraria anche ai certificati di morte e alle dichiarazioni dell’epoca. Può raccontarcela E raccontarci in base a quali elementi chiave l’ha formulata?

 

La mia ipotesi e' che Antonio Ranieri con le sue innumerevoli verità abbia voluto nascondere qualcosa, un suo gesto, una sua azione. Che abbia portato il corpo all'interno dell'Ospedale degli incurabili che tanto bene conosceva forse per poter carpire il segreto della genesi di quella scintilla del genio che aveva reso immenso l'uomo.

All'epoca era già diffusa la frenologia, una dottrina pseudo scientifica che si proponeva di valutare le diverse zone morfologiche del cranio al fine di determinare le qualità psichiche e la personalità delle persone.

Aggiungo inoltre che il certificato di morte per idropericardia fu firmato dal medico Stefano Mollica mentre in tutte le sue diverse versioni Ranieri parla di un medico reale di nome Nicola Mannella. Permane un dubbio su questo personaggio che appare citato solo dal Ranieri e non ho trovato, nonostante le innumerevoli ricerche, segnalato in alcun archivio.

La mia ipotesi si fonda su tanti elementi, primo fra tutti l’attività “anatomica” del Ranieri, poi sul suo comportamento subito dopo il decesso dell’ “amico”, sulle bugie raccontate a ripetizione e sempre diverse a seconda dell’interlocutore, su quell’Ospedale che appare come un filo trasparente ma resistente in tutta la trama di questa vicenda.

  In tutti questi anni di indagini, ricerche, viaggi a Napoli, a Recanati, per tentare di capire, per trovare una risposta ai tanti interrogativi, si è mai chiesta il perché di tutto questo? Perché Giacomo Leopardi, perché tanti misteri?

 Mi sono chiesta sempre, ogni giorno durante questi anni e ancor prima, quali interessi fossero sottesi al voler seppellire la verità. Ma qui ne sono in gioco troppi, a partire da quello di Ranieri che seppe così sapientemente mischiare verità e menzogne in un nodo tale che risulta quasi impossibile penetrarvi. Anche la critica,   ad esempio, nel caso della “conversione”, dovrebbe rivedere un po’ tutta la visione del pensiero del Poeta-filosofo che sembra essere ormai incasellato e sigillato. Qualcuno pensa che la conoscenza della sorte toccata a Leopardi (simile a quella che toccò a Mozart) non sia importante ai fini dell’Opera leopardiana. Personalmente ritengo, come già Gioacchino Taglialatela primo ad occuparsi approfonditamente di questi argomenti, che “de’ grandi uomini non solo sono da ritenere in gran conto le opere, ma sono da ricercare le notizie più minute, più intime della loro vita”.

 

(Claudia Migliore, Metropolis, Napoli, 13.10.2013)